A proposito di ipnosi

di Christian Skoorsmith, MA, FNGH, CI

LA POETICA DELL’IPNOTERAPIA: SCIVOLARE DI LATO NEI CANYON

Articolo tratto dal numero di Dicembre 2023 di “The Journal of Hypnotism”,

periodico di NGH (National Guild of Hipnotists).

Traduzione di Silvia Marchesa Rossi.

Questa è una rubrica volta ad aiutare gli ipnotisti a parlare al pubblico di ipnosi. Ci sono molti modi, naturalmente, per parlare di ciò che facciamo come professionisti dell’aiuto e ci sono molte cose da dire sull’ipnosi, direttamente o per analogia, ognuno dei quali ha qualcosa da offrire in contesti e discussioni diversi. Un aspetto di questo lavoro che ultimamente si è fatto strada in me è come l’ipnoterapia sia simile alla poesia.

La poesia
Nella mia pratica, rimango sempre sorpreso dell’inventiva e della creatività della mente umana: il modo in cui ci adattiamo alle sfide percepite e il modo in cui concepiamo noi stessi. Come Fratel Coniglietto, il subconscio ci attira tanto più quanto più cerchiamo di resistere. Oggetti e incidenti, persone e relazioni assumono significati nuovi e stratificati. Scoprirli e lavorarli spesso richiede una mente poetica, in grado di contenere più significati insieme e di aspettarsi l’inaspettato come fonte di ispirazione trasformatrice. Esattamente come quando si scrive e si legge la poesia.

Una qualità della poesia contemporanea è l’uso creativo del linguaggio, quando parole, frasi o immagini scivolano di lato, in un significato nuovo, in un’applicazione o un’associazione nuove. Gli esperti di PNL spesso sottolineano l’opportuna confusione del linguaggio parlato: omonimi, ossimori, doppi legami, scelte forzate e la loro parvenza di libertà, e così via. Questo è ancora più vero in uno stato di rilassamento così profondo che anche le parole sembrano confuse, cambiando forma o forza.

Jung si riferiva ai simboli come a strumenti dell’inconscio, il linguaggio che questo usa per esprimere un problema e presentare la risorsa per superarlo/guarirlo. Le parole, i suoni, persino le immagini sono semplicemente simboli che indicano; troppo spesso guardiamo il dito invece di ciò che sta indicando: una volta capito dove sta puntando, il dito diventa del tutto irrilevante. È questo il tipo di “scivolosità” a cui penso, un movimento laterale che fa uscire dalla prospettiva lineare: avanti o indietro, di qua o di là, binaria, sì o no, tutto o niente.

I canyon
Il rischio, tuttavia, come molti di noi che lavorano nell’ipnosi clinica/terapeutica sanno fin troppo bene, è quello di portare le persone sull’orlo dei canyon della loro vita senza farle precipitare decisamente oltre il bordo. Molti dei nostri clienti non vedono altra scelta: non andare fin lì o saltare dal precipizio; quindi, giustamente, temono di avvicinarsi alle situazioni difficili. Abbiamo tutti dei punti bassi nella vita, alcuni delicati come le valli, altri drammatici come i canyon: luoghi scavati da traumi, ferite, dolori e difficoltà. Questo è, ovviamente, il terreno e la topografia della terapia (uso il termine “terapia” nel senso storico, generale e subclinico/non diagnostico del tentativo di “ripristinare l’equilibrio”).

Nell’ipnosi offriamo ai clienti una terza opzione. Li aiutiamo a vedere il canyon per quello che è – senza le maschere del rifiuto o della catastrofe – e mostriamo loro i sentieri che si snodano lungo le pareti, ripercorrendo gli strati, seguendo il percorso delle forze plasmatrici di molto tempo fa, fino al centro oscuro, vicino al fondo.

Andiamo con loro, di fianco, nei loro canyon e li aiutiamo a emergere dall’altra parte dopo aver conquistato ciò che prima li teneva inconsapevolmente prigionieri. Ma come? Tre tecniche poetiche sono particolarmente utili in ipnosi: seguire i “fili d’oro”, vedere il proprio daimon o “genio” in retrospettiva, e intendere la retrospettiva stessa come un atto creativo.

Fili d’oro
Il poeta William Stafford, a metà del XX secolo, sosteneva di seguire quello che chiamava il “filo d’oro”. Nello scrivere una poesia, Stafford iniziava con qualsiasi idea, immagine o frase gli venisse in mente e si consentiva di seguirla senza giudizio o aspettativa, ovunque andasse. Contrapponeva il “seguire” al tirare il filo, che lo avrebbe legato o spezzato. Stafford andava semplicemente dove il filo lo conduceva, ovviamente seguendo il suo subconscio nel medesimo stato mentale da cui molti dei nostri clienti possono trarre beneficio.

Incoraggiare i nostri clienti ad adottare questo approccio permissivo e non giudicante è di enorme aiuto. Orientarli a permettere che la scena si svolga senza interferenze palesi o consapevoli (aspettative, razionalizzazione o persino speranza di approdare in un luogo o in una sensazione particolare) permette al loro subconscio di essere più creativamente impegnato nel processo.

Spesso ai nostri clienti sembra di stare “inventando”. Quando seguiamo il filo d’oro “inventare” non è un problema: basta seguire il filo, ci porterà dove dobbiamo andare. Oppure no, e anche questo va bene! Fidarsi del subconscio è un’abilità che alcune persone sviluppano lentamente, ma è un’occasione preziosa.

Il genio in retrospettiva
Nella religione greca classica daimon indicava un potere soprannaturale. Omero lo usava come termine quasi intercambiabile con theos o “dio”. Per Socrate, il daimon è il punto d’incontro tra il divino e l’umano, l’intersezione tra metafisica ed etica, quindi, in qualche modo, sia trascendente che palpabilmente immanente. Platone ne definiva l’idea come di quella forza o personalità all’interno della persona responsabile d’imprimere la direzione alla sua vita: è la parte di noi che vive l’apprendimento come “memoria” della verità che già conoscevamo ma avevamo dimenticato.

A volte questa entità platonica viene tradotta come “Genio”: non l’intelligenza evocata nella nostra mente da questa parola, ma molto più vicina a quell’idea di quanto non lo sia il termine “demone”. Gli psicologi junghiani adottano questa idea per identificare l’impulso umano naturale che spinge ogni individuo a compiere la propria unica e più alta realizzazione, qualunque forma essa assuma nella vita di ciascuno. Come un “angelo custode” che ha tutto l’interesse a guidarci in una direzione piuttosto che un’altra, ci spinge e ci offre determinate opportunità sul nostro cammino.

James Hillman amava sottolineare che l’influenza del proprio daimon o Genio è difficile da discernere guardando in avanti; il Genio di una persona si rivela spesso guardando indietro nel corso della propria vita. Nei nostri viaggi contorti possono apparire temi dominanti, interessi o schemi ripetuti, o anche casualità che hanno finito per essere tremendamente fortuite… si potrebbe dire, quasi ispirate.

Nel nostro mondo iper-razionale decliniamo tali idee come voli pindarici, sciocchezze, superstizioni, compensazione per una mente debole di fronte alla dura realtà dell’esistenza. Ma anche questa critica è fondata su una particolare visione del mondo, una prospettiva non così oggettiva come si vuole far credere.

Guardiamo dunque la questione in modo diverso.

E se ripercorrere il viaggio della nostra vita, come siamo arrivati a essere questa particolare persona in questo particolare modo, non fosse né una bugia rassicurante né un essere soprannaturale che cospira per mandarci in una direzione, ma piuttosto una tendenza naturale a sentire che le nostre vite sono modellate da un significato, e a rispondere a questo impulso modellando le nostre vite in accordo con esso? È pur vero che questo senso di direzione (a volte forte, a volte sopito) si intravede più facilmente in retrospettiva, guardando indietro alla vita. Trovare un senso di scopo per la nostra vita potrebbe non essere così folle dopo tutto.

Retrospettiva come creazione
Forse non c’è bisogno di dire che questo “guardarsi indietro” e tracciare le linee di influenza e di casualità della nostra vita è, esso stesso, un atto creativo. In ogni momento ci sono probabilmente decine di potenziali fattori che potremmo indicare come determinanti o contribuenti. Perché ne evidenziamo alcuni e non altri? È una sensazione di “ciò che è vero” o la tessitura di una storia che ci indica dove vogliamo andare? Potrebbe, la retrospettiva stessa, essere un filo d’oro che lasciamo tessere da noi, per noi?

Questo impegno creativo con la nostra storia è inevitabile, credo. Non sempre va bene. Le persone si raccontano un sacco di storie assurde su di sé, perché sono come sono, perché si meritano la situazione in cui si trovano. Allora perché non incoraggiare una deliberata ridefinizione della narrazione? Cercare il Genio nella loro vita, quella piccola voce persistente, la forza che le ha precedute nel preparare certe esperienze o opportunità, che le ha stuzzicate o attirate in una direzione anziché in un’altra.

Recenti studi sulla memoria dimostrano che rimodelliamo i nostri ricordi in continuazione, indipendentemente dalle nostre intenzioni. Non siamo mai “oggettivi”. Le trame a cui pensavamo di essere vincolati in realtà potrebbero essere distrazioni dal vero Genio al lavoro, oppure potevano essere una porta aperta alla soglia della quale continuavamo a bussare.

In ogni caso, quando concediamo a noi stessi e ai nostri clienti lo spazio per una retrospettiva creativa, apriamo (creiamo?) le porte per far emergere nuove realtà, capacità espanse o visioni intelligenti.

Ingaggiare questo atto creativo di “ricordare” o anche “guardare indietro” ed esaminare la propria vita permette di tracciare il filo, senza tirarlo o desiderare che arrivi “dove dovrebbe”. Quel filo d’oro diventa, in effetti, una linea di vita che collega il passato con il futuro. Fatto con speranza e meraviglia, con spazio per muoversi di lato a volte, tesse davvero una bella visione.

I canyon possono risultare terrificanti sul ciglio del precipizio, se si riesce a vedere solo la caduta, l’enorme mancanza che sembra avere una terrificante gravità tutta sua. Ma i canyon possono anche essere belli, se si vede la storia stratificata e commovente che scopre alla vista un paesaggio sepolto. Parte del nostro lavoro migliore con i clienti è mostrare loro questi sentieri e aiutarli a seguirli. Poi, proprio come quando si va per canyon, lasciamo che il terreno racconti la sua storia, in realtà la nostra storia, scoprendo che, alla fine, non è mai stata scolpita nella pietra.